C’è modo e modo, anche di licenziare

C’è modo e modo di fare le cose, anche di licenziare. La sostanza è sempre quella ma la forma in certi casi vale quanto la sostanza.

Mi è capitato di leggere la lettera che Brian Chesky, CEO e co-fondatore di Airbnb ha scritto ai dipendenti per preannunciare gli imminenti licenziamenti che, causa Covid-19, ci sarebbero stati in azienda colpita durissimamente dalle conseguenze della pandemia.
Una lettera piena di empatia che esprime amarezza e reale coinvolgimento. Scrive Chesky:

“A chi lascia Airbnb sappiate che non è colpa vostra. Il mondo non smetterà mai di cercare le qualità e i talenti che avete portato ad Airbnb...”
Voglio ringraziarvi, dal profondo del cuore, per averle condivise con noi”.

Spiega inoltre in modo chiaro il perché, il come e il cosa sarebbe stato fatto per supportare chi doveva lasciare l’azienda. È un leader che parla dal suo cuore al cuore dei suoi collaboratori.

Dopo aver letto questa lettera sono andata a riprendere quella del mio licenziamento e l’ho riletta a 5 anni di distanza.
Mi veniva comunicato…

“…di aver adottato nei suoi confronti il provvedimento di licenziamento per riduzione di personale.”

E dopo una serie di riferimenti normativi e il richiamo a un accordo sindacale chiudeva così:

Nel ringraziarLa per l’opera prestata presso la scrivente, le porgiamo con l’occasione distinti saluti”.

Dopo 18 anni, in occasione del mio licenziamento, mi porgevano distinti saluti. Ma che carini!

Un tono formale, freddo, distaccato, impersonale, quello che si usa con chi non si conosce. Ma noi ci conoscevamo, eccome! Ci siamo frequentati quotidianamente per 18 anni. Diciotto. Di-ciot-to.

La mia (ex) azienda sapeva tutto, o quasi, di quei miei 18 anni. Gli alti e i bassi di un lungo pezzo di vita che era stato condiviso, raccontato, ascoltato. Ma adesso non ero più quella Loredana, ero un’identità a cui porgevano distinti saluti.

Quel licenziamento non è stato un fulmine a ciel sereno, sia io che i miei ex colleghi abbiamo avuto molto tempo per prepararci alla cosa e questo ha reso, almeno per me, il momento meno traumatico.

C’era stato un anno di gestione da parte della curatela fallimentare e poi 6 mesi di cassa integrazione prima di quel 26 maggio 2015.

Ricordo invece con maggiore impatto il momento in cui, un anno e mezzo prima, un collega in fondo al corridoio aveva annunciato con tono agitato e a voce alta “falliti!!!”. Aveva appena saputo che il Tribunale aveva decretato il fallimento della nostra azienda. Io stavo tornando nel mio ufficio con un barattolo di patatine Pringles in mano. Mi era venuta fame ed ero scesa al bar a prendermi qualcosa. Da quel giorno non ho più comprato le Pringles nella confezione rossa.

Il 26 maggio invece lo ricordo come una specie di reunion con gli oramai quasi ex-colleghi che, come me, erano stati convocati nell’ufficio del Responsabile Risorse Umane per ritirare la propria lettera di licenziamento. Non ce l’hanno spedita a casa, hanno risparmiato i soldi della raccomandata. Beh, d’altronde eravamo falliti! Così siamo arrivati alla spicciolata riuscendo persino a scherzare tra di noi per sdrammatizzare la cosa. Di quella giornata ho solo qualche piccolo flash nella memoria, non so perchè.

Ricordo che mi è stata data la lettera di licenziamento con scritto il mio nome, ho firmato per ricevuta, salutato e sono uscita da lì da disoccupata, a 49 anni, dopo un totale di 21 anni di lavoro ininterrotti, 18 nell’azienda fallita + 3 precedenti in una piccola società di Bologna.

Cinque giorni dopo, il 1° giugno, ero dietro al desk di un hotel 3 stelle superior con indosso la divisa da Receptionist. C’è qualche vantaggio nel venire licenziati in una città turistica proprio a ridosso della stagione estiva.

Quella di Receptionist d’hotel è stata la prima esperienza della mia vita professionale 2.0. 

(la foto è di Goiwara da Pixabay)

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